*********** IL POST CONTIENE SPOILER ************
Si era conclusa così la quarta stagione di Orange is the new black, ormai più di un anno fa: come una bomba ad orologeria pronta ad esplodere da un momento all'altro. D'altronde lo stesso mondo reale più di un anno fa sembrava tale: ancora niente Brexit, niente Trump, mentre populismi spicci si propagavano come un virus contro comunità (europee?), minoranze, donne, rifugiati, terrorismi.
- Sì, ma cosa ha a che fate tutto questo con le storie delle detenute di Litchfield? Vi chiederete. Ha a che fare, altroché.
La serie tv prodotta da Netflix e nata dal libro di memorie di Piper Kerman, Orange Is the New Black: My Year in a Women's Prison, nel corso di cinque stagioni ha subito molte evoluzioni narrative che ne hanno notevolmente arricchito il tono. Se lo scopo primario era quello di mostrare il gap esistente tra la viziata donna bianca, la cui vita viene messa allo sbaraglio da una condanna inaspettata, e il microcosmo brutale e a tratti primordiale di una prigione statunitense, con regole e rapporti sociali e di potere inaspettati per una wasp, a poco a poco il focus si è sempre più spostato sui drammi esistenziali e reali di ciascuna delle sue componenti.
Quello di Litchfield diventa allora un enclave che raccoglie tutto il "peggio" (con doverosissime virgolette) che la società sembra offrire: criminali, certo, ma prima di ogni cosa donne latine, nere, bianche a volte neonaziste, islamiche, immigrate, transgender, lesbiche occasionali e non, psicolabili, tutte accomunate da una precisa e tragica storia che ne mostra la sofferenza e la dignità intrinseca, anche laddove con ogni mezzo si cerca loro di negarla. È una piccola America in fondo, solo con spazi più ristretti, dove il contatto tra razze è inevitabile e la brutalità governativa accettabile. È in pratica l'esplosione di tutti gli oggetti di odio populista che il nostro mondo riesce a concepire. Con l'ulteriore aggravante della sua natura femminile: se cercate una precisa definizione di patriarcato oppressivo la troverete in questa serie tv.
Ciò che è grandioso di Orange is the new black è la capacità di far crescere tutto questo retroterra fertilissimo in consonanza con ciò che accade nel mondo vero, soprattutto nelle ultime due stagioni, dove si sono a poco a poco allentati i drammoni più smaccati (la nemica da sconfiggere nella seconda, i tradimenti e i problemi sentimentali nella terza), per una propensione più politica e sociale.
Così ad esempio nella quarta stagione abbiamo assistito al trattamento di un tema delicatissimo e decisamente poco conosciuto da noi europei: quello della privatizzazione delle carceri. La maggior parte delle strutture di correzione statunitensi è infatti in mano a gigantesche multinazionali che sfruttano il lavoro dei detenuti per immettere sul mercato beni di consumo, come ad esempio le famigerate mutandine di Victoria's secrets. Vi ricorda qualcosa? A ciò, sia nella realtà sia nella finzione della serie televisiva, si accompagna inoltre un notevole abbassamento ulteriore degli standard carcerari, abbattendosi sulla pelle e sulla salute di chi li abita.
Ciò che fa esplodere la bomba è alla fine il regime di terrore e sfiducia nel quale viene buttata la prigione da parte di guardie carcerarie mal addestrate nel migliore dei casi, crudeli e violente nel peggiore. In un escalation che porta alla morte accidentale di una detenuta, ecco che queste donne, ai margini della società e con un minimo potere in mano, si alzano e si rivoltano.
È così che Litchfield si trasforma da gineceo punitivo in una strana e seppur distorta democrazia, in cui ognuna può essere ciò che vuole: c'è chi si mette a capo dei negoziati, chi si trasforma in infermiera, chi addirittura in dottore, chi costruisce monumenti in memoria dell'amica e amante uccisa, chi in youtuber di moda, e chi semplicemente si mette ai margini, ritagliandosi uno spazio di libertà da quella che giudica una follia. Ovviamente continuano a persistere tutte le storture che è possibile trovare in una società democratica, innanzitutto tradimenti e prepotenze, ma è quanto di più simile queste donne possano fare per affermare: «Sono un essere umano, sono una donna, ho dei diritti inalienabili, che pretendo vengano riconosciuti e rispettati, e posso realizzare tutto ciò che è in mio potere».
So che bisogna sempre tenere ben chiara la distinzione che esiste tra un attore e il personaggio da esso interpretato, ma non mi stupisce il fatto che gran parte del cast abbia partecipato alla Women's March tenutasi a gennaio a Washington.
Per concludere, tutta la serie è sempre condita da quella mescolanza di humor, spesso nero, e drammaticità che sin dall'inizio ne ha caratterizzato la grandezza. Soprattutto in questa quinta stagione in cui il potenziale delle storie raccontate esplode vigorosamente.
Non si risparmia verso nessuno la narrazione, mostrando al contempo il peggio e il meglio che ciascun essere umano è in grado di tirar fuori da sé. È forse proprio per questa ragione che viene così facile empatizzare con donne che sembrano tanto distanti da noi: le loro storture ci appartengono, e il loro destino si è distanziato dal nostro solo per via di alcune pause, punti e punti e virgola, che ad un certo punto della nostra vita siamo stati in grado di porre; o qualcuno l'ha fatto per noi.