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3 documentari su Netflix

by - 10:03


Ormai tutti in Italia siamo a conoscenza di questo strano strumento del demonio chiamato Netflix. Si tratta difatti di una delle più importanti piattaforme di streaming online on demand al mondo, sbarcata da circa un anno e mezzo anche nel Bel Paese. Personalmente sono una netflixiana della prima ora, e usufruendo sporadicamente di altri servizi simili posso senza ombra di dubbio affermare che due caratteristiche lo rendono nettamente superiore a quanto finora è presente sul mercato italiano: la qualità (dei prodotti proposti certamente, ma anche delle varie interfacce e della velocità di esecuzione di esse) e la profondità del catalogo. Di non solo serie tv vive infatti Netflix, ma anche di moltissimi film, e soprattutto di spettacolari documentari. E proprio di questi ultimi voglio parlarvi oggi.

Quelli che saltano immediatamente all'occhio, appena vi spingete nella sezione documentari, sono sicuramente documentari scientifici e naturalistici (tra tutti vi consiglio soprattutto Cosmos, Human Planet e Africa), ma moltissimo altro si nasconde. In particolare io sono una grande appassionata di documentari socioculturali (un po' meno Micheal Moore, un po' più inchieste giornalistiche), e tra questi tre in particolare hanno incollato i miei occhi allo schermo.


Ricorderete tutti l'omicidio di Meredith Kercher avvenuto nell'autunno del 2007 a Perugia. E ricorderete tutti i nomi di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, i due ragazzi allora fidanzati, accusati dell'omicidio e poi definitivamente prosciolti dalla Cassazione nel marzo 2015. Forse ricorderete meno Rudy Guede, l'unico a tutt'oggi condannato a sei anni per concorso in omicidio. Ma sono loro i protagonisti di questo documentario.
Per parlarvene devo farvi una piccola premessa: la vostra opinione su di esso ovviamente verrà modellata dal giudizio personale che ciascuno di voi ha su questa vicenda. Il documentario non vuole essere un'inchiesta, né una ricostruzione accurata, e soprattutto a mio parere non vuole essere del tutto oggettivo. La mia personalissima opinione, ad esempio non è stata minimamente scalfita dalla sua visione. Dove sta la sua qualità? Chiederete, allora. Sta nel suo essere un pezzo di cinematografia incredibile, nella banalità del bene e del male che mostra
Al centro troviamo principalmente quattro protagonisti: Amanda Knox, che ovviamente campeggia incontrastata, Raffaele Sollecito, il Pm responsabile del caso, Giuliano Mignini, e il giornalista Nick Pisa, inviato per il tabloid britannico Daily Mail
Ognuno di loro sembra lì per da sfoggio del peggio di sé, non si sa se consapevolmente e inconsapevolmente: da un lato abbiamo Amanda, che indipendentemente dal giudizio che possiamo avere su di essa, sembra sforzarsi in ogni modo di apparire la classica brava ragazza acqua e sapone della provincia americana (benché sia di Seattle); dall'altro Raffaele, con il suo inglese un po' strascicato e l'aspetto di un eterno quindicenne di belle speranze,  trovatosi in quella situazione quasi per sbaglio; e poi ancora Giuliano Mignini, che sembra quasi uscito da un romanzo di Simenon, con la pipa in bocca e l'aspetto corrucciato, ma tutto all'italiana, dove una certa approssimazione, condita con uno strenuo senso cattolico, fa da padrona; infine Nick Pisa, così tipicamente fiero detentore della peggior congerie di sciacallaggio giornalistico da non sembrare neanche vero. 
Il risultato è dunque qualcosa di raccapricciante, e qui sta il suo bello, sia che stiate dalla parte dell'innocenza (nel qual caso vi scaglierete contro Mignini e Nick Pisa) o dalla parte della colpevolezza (nel qual caso vi scaglierete contro Amanda e Raffaele). Furbetti i registi, direte? Sicuramente, ma non si può non apprezzare una macchina narrativa talmente perfetta, da essere in grado di superare ogni possibile angoscia che abbia mai suscitato in voi una puntata di Black Mirror. La brutalità del reale supera sempre la fantasia. 



Passando a ben altri argomenti, non meno brutali, ecco che approdiamo ad un documentario che vuole essere davvero uno strumento di sensibilizzazione e denuncia. The true cost nasce da un progetto di crowdfunding messo sù all'indomani del crollo del Rana Plaza di Savar, in Bangladesh, nel 2013. 
Ricordate vagamente questa notizia? Bene, prima di vedere il documentario anche io, e la cosa mi ha immersa di sensi di colpa. Il 24 aprile 2013 il Rana Plaza, un enorme edificio commerciale di otto piani crollò letteralmente su stesso. L'edificio ospitava diversi uffici, banche, appartamenti, ma soprattutto fabbriche di abbigliamento. Il crollo causò la morte di 1129 persone e il ferimento di 2515. La maggior parte di essi erano lavoratori tessili, costretti a lavorare al suo interno, anche dopo la dichiarazione di inagibilità, a seguito della quale tutti gli altri lavoratori e inquilini lo avevano abbandonato. Le fabbriche realizzavano abbigliamento per numerosissimi marchi internazionali, tra cui: Auchan, Benetton, Inditex (che racchiude al suo interno Zara, Stradivarius, Pull & Bear, Bershka e Oysho), Primark e Walmart. Tutti marchi di abbigliamento low-cost che negli ultimi 15/20 anni si sono letteralmente impadroniti del settore dell'abbigliamento, cambiando radicalmente il nostro modo di consumare: ecco una prima cosa che imparerete guardando questo documentario, non sono gli stili di vita degli acquirenti a determinare il mercato, è il mercato a determinare gli stili di vita degli acquirenti.
È qui che nasce la magia: ed ecco che un milione e mezzo di jeans possono essere commissionati a 30 cent l'uno. Jeans che la prossima stagione non andranno più bene, vuoi perché nel frattempo ne saranno stati prodotti altri milioni, vuoi perché la loro qualità reale è studiata per avere un circolo vitale bassissimo e indurre anche l'acquirente più recalcitrante ad una "fast fashion" che ingurgita senza pietà ogni cosa al suo passaggio: dalle vite delle persone al precarissimo ecosistema della nostra Terra. Qual è dunque il costo reale di ciò che indossiamo?


«Né schiavitù o servitù involontaria, eccetto che come punizione per un crimine per cui il soggetto dovrà essere debitamente incarcerato, esisterà sul suolo degli Stati Uniti, o in ogni altro luogo soggetto alla sua giurisdizione». Eccolo qui, il XIII emendamento della costituzione degli Stati Uniti d'America
Devo dire che la parola schiavitù in me, che mi approcciavo del tutto ignara alla visione di questo documentario, suscitava delle precise immagini: la schiavitù dei clandestini che in casa nostra e nel resto d'Europa muoiono nella raccolta della frutta a condizioni disumane, per 2€ al giorno; la schiavitù dei bambini-soldato in Africa; la schiavitù dei lavoratori dei paesi del Terzo Mondo. Insomma, tutto tranne ciò che è al centro del documentario: per ignoranza personale, forse, ma anche perché talmente inconcepibile da non sembrane neanche vero. E dire che in realtà, un altro prodotto Netflix me ne aveva già parlato: la serie tv Orange is the new black.

Sì, perché la schiavitù di cui stiamo parlando è quella che si perpetua ogni giorno nelle carceri americane, all'interno delle quali ad oggi è detenuta il 25% della popolazione mondiale. Un detenuto su tre è inoltre afroamericano
Non ci va giù con leggerezza XIII emendamento, ripercorrendo la storia della segregazione razziale americana, fino al movimento odierno Black Lives Matter, e dei principali responsabili di questo stato di cose: Nixon, Regan, Bush padre, Clinton, Bush figlio. Credevate che non ci fosse nulla di peggio dell'era Trump? Beh, questo documentario vi dimostrerà che abbiamo la memoria un po' corta.
Ma quale interesse può avere mai uno Stato nel creare coscientemente una così alta popolazione carceraria (che a rigor di logica dovrebbe gravare sulle sue tasche)? Vi sfugge un elemento dell'equazione? Forse perché non sapete che molte carceri statunitensi sono in realtà gestite da una gigantesca multinazionale, la Correction Corporations of America, che grazie al lavoro dei detenuti immette sul mercato i prodotti di Victoria's Secret, IBM, Motorola, Microsoft, McDonald's, e chi più ne ha più ne metta. 
È chiara la forte componente di cultura afroamericana all'interno del documentario (il rap, signori, avete mai ascoltato davvero le canzoni rap?), coscientemente voluta dalla regista Ava DuVernay, che recentemente ha portato al cinema Selma - La strada per la libertà
«Terra dei liberi e casa dei valorosi»? O terra dei detenuti e casa delle corporations?



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5 commenti

  1. Anch'io netflixiana integralista :D
    Però di documentari non ne ho visto nemmeno uno. In effetti non ne vedo quasi mai, non è un genere che amo particolarmente. Però prendo nota dei tuoi suggerimenti (The True Cost è quello che mi incuriosisce di più).

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    1. Mi rendo conto che quando uno attacca Netflix difficilmente va alla ricerca di un documentario, ma ti consiglio davvero di provare, perché ne trovi davvero per tutti i gusti! Anche di arte, musica, crime investigation ecc ecc
      E grazie per i complimenti! Sono particolarmente fiera della nuova grafica e soprattutto di essere riuscita a non rovinare tutto con i miei interventi ^^

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  2. Dimenticavo: bella la nuova grafica, luminosa e spaziosa!

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  3. Io adoro i documentari e avevo visto la pubblicità di quello su Amanda Knox. Non è proprio il mio genere ma di sicuro quello sulla schiavitù delle carceri sì (mi rendo conto che detta così sembro morbosa, ma il mio è un interesse puramente sociale! xD).

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    1. Ahahahahah! Sono sempre stata dell'opinione che se qualcuno che non mi conosce desse uno sguardo alla mia libreria o al mio account Netflix probabilmente finirei in un manicomio! Quindi capisco bene cosa intendi ^^

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