Il viaggio di David Lipsky e David Foster Wallace
Il nome di David Foster Wallace incute sempre un po' di timore nel lettore alle prime armi. Un nome già di per sé così altisonante, importante, ricco di storia. Se poi lo si associa ad un romanzo di 1079 pagine, definito dalla critica di tutto il mondo «un capolavoro», «in grado di cambiare le sorti della narrativa americana, di riesaminare ex novo il romanzo e ricrearlo», i timori aumentano in maniera esponenziale. E senza voler essere cinici, diciamo anche che la santificazione a cui è stato sottoposto il nome di questo scrittore, a seguito del suo suicidio nel 2008, non aiuta in questo senso.
Insomma, la prima impressione che se ne ricava è quella di uno scrittore difficile e complesso, ma anche e forse soprattutto quella di un uomo difficile e complesso: l'immagine degli ultimi anni della sua vita, in cui la depressione e una serie di terapie farmacologiche sbagliate ebbe la meglio, è l'ultima che in genere si restituisce di David Foster Wallace.
Ecco allora che oggi vi parlo congiuntamente di un libro e di un film, per spingere anche i più timorosi verso questo grande autore: perché sì, fu un grande scrittore, un grande pensatore, che ha effettivamente rivoluzionato un certo modo di fare narrativa, ma above all, fu un uomo che sapeva essere allo stesso tempo dolce e sprezzante, introverso, insicuro ed estremamente vitale, affetto da tutte le debolezze che accomunano i comuni mortali.
The end of the tour è pertanto il film uscito l'11 febbraio nelle sale italiane, tratto dal libro di David Lipsky Come diventare se stessi pubblicato nel nostro paese da Minimum Fax (18,50€, traduzione di Martina Testa), il nostro editore del mese. È difficile dare un'esatta definizione di questo libro, che nei fatti si configura come una lunga intervista che il giornalista di Rolling Stones fece nel 1996 a David Foster Wallace durante gli ultimi giorni del tour promozionale attraverso l'America di Infinte Jest. Però è qualcosa di più di una mera intervista: è il resoconto di un percorso, di un viaggio di cinque giorni, di una, anzi di due diverse personalità di scrittori, è a tratti un romanzo.
Ai tempi del libro David Lipsky aveva appena 30 anni, aveva da poco raggiunto una certa stabilità economica divenendo reporter per la famosissima rivista Rolling Stones e aveva alle spalle alcune pubblicazioni, che in verità non riscossero grande successo. David Foster Wallace era appena più grande, 34 anni, ma aveva alle sue spalle molte più esperienze, di vita e di lavoro, di tanti suoi coetanei: una laurea in letteratura e filosofia, una specializzazione, due libri dal discreto successo (La scopa del sistema e La ragazza dai capelli strani), un breve passato da alcolista e un ricovero presso una clinica psichiatrica a causa di una profonda depressione che l'aveva colpito sul finire degli anni '80. E poi, nel 1996 l'evento destinato a cambiare ogni cosa: il grandissimo successo di pubblico e di critica di Infinte Jest. Proprio allora Rolling Stones manda in campo il suo giornalista per un'intervista, che purtroppo non vedrà mai la luce se non nella sua pubblicazione in volume, avvenuta soltanto nel 2010.
David Foster Wallace |
David Lipsky |
Il fatto che si parli di me, primo: mi mette a disagio, e secondo: mi fa male, perché mi rende troppo insicuro quando scrivo. E non ho proprio bisogno di ulteriore insicurezza Cazzo, guarda... già mi ci vuole un sacco di tempo per prendere il ritmo. Sinceramente non lo so, come dire, che piega prenderanno gli eventi, adesso.Dalla dipendenza nei confronti della televisione, all'odio nei confronti di un certo modo di apparire in quanto scrittore, alla grande passione e attrazione per Alanis Morrisette (e chi l'avrebbe mai pensato?). C'è davvero molto della reale personalità di David Foster Wallace in questo libro, diversa da quella che poi la vulgata nata dopo la sua uccisione ci ha restituito, e al contempo c'è una forte dimostrazione del pensiero che lo animava e che è alla base della sua scrittura. Quello che alla fine un lettore ricava è proprio l'immagine dello scrittore come autentico filosofo, anche su ciò che riguarda la sua specifica attività letteraria. Si sorprenderà forse il lettore nello scoprire che tra le parole di Wallace non ci sono ricette magiche per scrivere un buon libro o acutissime teorie letterarie, ma soltanto la sua personalissima voce ed esperienza:
Vedi, nella scrittura ci sono pochissime frasi innocenti. Non basta tenere presente solo che effetto fa a te quello che scrivi. Bisogna anche essere capaci di immaginare in maniera plausibile come lo interpreterà la mente di un'altra persona. Quindi alla base c'è una sorta di scissione mentale che secondo me rende difficile rapportarsi alla gente nella vita di tutti i giorni. Ma di fatto poi torna utile.
E il film The end of the tour tutto questo lo documenta in maniera abbastanza autentica: si ha l'impressione non tanto di assistere ad un viaggio indimenticabile, quanto piuttosto ad un'intima esperienza, ed è poi questo il senso del libro. Un biopic sopra le righe, che sulla falsariga di un altro recente biopic come Jobs, decide di raccontarci solo un piccolo spaccato della vita e della realtà del suo protagonista, ma altamente rappresentativo.
Bella l'interpretazione dei due protagonisti Jesse Eisenberg (The social network) e Jason Segel (How i met your mother) nei panni di Lipsky e Wallace. Devo confessare che nutrivo una certa diffidenza nei confronti di quest'ultimo, se non altro perché la sua immagine così tendenzialmente tenera e semplice non riuscivo ad associarla alla complessità di Wallace. Ma mi sono dovuta ricredere. Di certo, da un punto di vista fisico nessuno sarebbe stato migliore di lui nell'interpretarlo, e anche dal punto di vista psico-emotivo ha dato buona prova di sé. Forse l'unica cosa che mi sento di imputare al film è una certa insistenza su i toni più cupi e tormentati quasi a presagio di quello che sarà poi il destino dello scrittore, e anche la tendenza a restituirne un'aurea profetica. Ma non lo reputo un errore eccessivamente infamante, se si considera che è appunto questa la vulgata più diffusa, anche tra lettori e critici navigati. È questo che da Wallace perlopiù si vuole ed è questo il modo in cui lo si rappresenta.
Jesse Eisenberg e Jason Segel in una scena di The end of the tour. |
Non so quanto lo stesso Wallace sarebbe stato felice di questa operazione, probabilmente non molto, vista la sua profonda insicurezza nei confronti delle modalità con cui la sua immagine veniva proiettata all'esterno. Di certo però avrebbe apprezzato la forte sincerità del libro di Lipsky. Pertanto, se volete conoscere Wallace e non avete ancora letto nulla di lui, partite da Come diventare se stessi, continuate se volete con The end of the tour, e poi proseguite con La ragazza con i capelli strani, La scopa del sistema e infine Infinte Jest. L'impressone sarà un po' come quella che si prova alla fine di una lunga scalata. Ma il risultato ne varrà senz'altro la pena.
8 commenti
D'accordo su tutto! Soprattutto sul film che restituisce un'immagine fin troppo calcata di Wallace (forse lui non avrebbe gradito, ma si tratta in ogni caso dell'interpretazione di un regista). Nel complesso niente male!
RispondiEliminaEsatto, sul film anche il mio giudizio complessivo è un "Not bad" ^^
RispondiEliminaHo apprezzato molto di più il libro, vi ho ritrovato un'autenticità che sarebbe stato effettivamente difficile trasporre su pellicola, proprio in virtù dell'intimità da cui è scaturita.
Per me è esattamente al contrario: non ho affatto un'immagine triste di DFW. Mentre leggevo un suo libro, anzi, mi colpiva sempre l'infinita vitalità che trovavo nelle sue parole, una tale forza di emozioni che ti spinge ad alzarti e fare qualcosa, pensare di più, muoverti. E questo mi colpiva proprio per la fine tragica di chi quelle parole le aveva scritte, perché è inevitabile pensare che un suicida dovesse essere una persona triste. Ma io non la penso così... penso che quelli come DFW, che dentro hanno TUTTO, non sono tristi; solo non abbastanza forti da reggere oltre un certo punto quel "tutto". Non so se mi spiego, e d'altronde è un discorso troppo lungo per esaurirlo in un commento.
RispondiEliminaComunque, ogni volta che finivo un suo libro mi restava quel pensiero che mi sarebbe proprio piaciuto averlo come amico. Magari leggere Come diventare se stessi è un modo per conoscere meglio il Wallace uomo. I suoi libri, ad ogni modo, li leggo pian piano: voglio farli durare, perché non mi piace l'idea di non aver più nulla di DFW da leggere.
I libri di Wallace inevitabilmente sono da centellinare, contengono una tale densità di idee che sarebbe sciocco lasciarsi fluire semplicemente addosso! Senza voler troppo azzardare, da questo punto di vista la sua scrittura crea in me un'esperienza non troppo dissimile da quella di Dostoevskij: un immersione totale nella mente umana. E sono lieta che associ DFW alle immagini che hai detto, sei una lettrice attenta non poteva che essere così. Capisco per altro quello che intendi a proposito della sua fine e lo condivido.
EliminaC'è una bellissima frase di Sciascia a proposito di Ettore Majorana (un'altra mente geniale la cui fine rimane misteriosa, ma probabilmente non dissimile da quella di Wallace) che a mio parere spiega al meglio quanto hai detto: «Il portare poi la scienza come parte di sé, come funzione vitale, come misura di vita, doveva essergli angoscioso peso; e ancor di più nell'intravedere quel peso di morte che sentiva di portare oggettivarsi nella particolare ricerca e scoperta di un segreto della natura: depositarsi, crescere, diffondersi nella vita umana come polvere mortale». Majorana era uno scienziato, DFW un filosofo, ma il confine è davvero molto labile, la loro mente conteneva un TUTTO come dici tu, sul quale a un certo punto sentirono inevitabilmente gravare un peso di morte, e questo indipendentemente dalla propria indole personale. Ma hai ragione, è un ragionamento troppo lungo per esaurirlo qui, le tue parole mi stimolano sempre molto.
Dobbiamo farci una chiacchierata, oh! :D
Ahaha, va benissimo, ti aspetto per un caffé! ;)
EliminaSono totalmente ignorante su Sciascia, lo ammetto. La citazione che hai riportato ci sta tutta. Pensa, io invece associo DFW - sempre per il discorso che qui stiamo sfiorando - ad un'altra grande mente, quella che personalmente reputo la più grande di tutte: Leopardi. Quando penso a Wallace mi vengono in mente le numerose considerazioni del poeta riguardo la propria difficoltà, detto in parole povere, a stare al mondo. Contrariamente a quanto pensano in molti, anche negli scritti di Leopardi ci sono infiniti guizzi di vitalità, parole che trasudano voglia e fame di vivere. Nel caso di Leopardi questa voglia si è scontrata da una parte con circostanze della sua vita, ma dall'altra con la sua eccessiva sensibilità che gli rendeva ogni esperienza più ardua del normale. Ecco, DFW è vissuto in un'epoca più dinamica e certo non è cresciuto nel recinto di Recanati; questo gli ha permesso di "vivere" di più e forse di spingersi oltre i limiti delle proprie insicurezze. Ma, in fondo, siamo lì: Wallace è una di quelle anime grandi di cui Leopardi parla tanto nelle Operette morali.
*va a preparare il caffé*
Con Leopardi mi hai definitivamente fatto innamorare di te! <3
EliminaMi è piaciuto molto il commento di Julia, qui sopra: ha spiegato perfettamente la forza emotiva che "c'è" nelle opere dello scrittore. Non ho letto moltissimo di DFW, ma la raccolta Questa è l'acqua merita assolutamente - e consiglio sempre di recuperare almeno il discorso (che dà il titolo alla raccolta), lì incluso, che l'autore tenne al Kenyon college nel 2005.
RispondiEliminaVedrò sicuramente il film, sono assai curiosa!
Non ho letto la raccolta di cui parli, né tantomeno il discorso tenuto nel 2005 (sebbene ne abbia sentito parlare). Devo assolutamente recuperarli. Grazie delle dritte :)
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