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Il romanzo italiano è morto (?)

by - 11:29

Durante le ultime settimane di agosto, come al solito quando non si ha di ché riempire i giornali, è esploso per l'ennessima volta un dibattito che alla lunga sta diventando più vecchio di chi lo anima: la letteratura italiana è morta, il romanzo italiano è morto; dopo Levi, Moravia, Pasolini, Morante, Calvino, Volponi (e chi più ne ha più ne metta) il panorama culturale e intellettuale italiano è andato allo sfacelo. Quindi in pratica da più di 30/40 anni brancoliamo nel buio.
Questa è la tesi che hanno sostenuto in modo diverso, ma simile, due scrittori e critici: Franco Cordelli, dalle colonne de Il Fatto quotidiano (ironia mode on: questo giornale sembra proprio avercela a morte con la cultura umanistica, oh!) e Pier Vincenzo Mengaldo dalle colonne de Il Corriere della Sera.

Tipico esempio di dialogo tra vecchie
e nuove generazioni
della critica.
(Jonathan Wolstenholme)

L'assunto di base da cui i due partono è perfettamente condivisibile: la cultura, in particolare quella umanistica, sembra non avere più spazio nella nostra società; la cultura, come ogni altra cosa nel nostro dilagante neoliberismo, è diventata merce da vendere e svendere ad ogni costo; gli intellettuali (colpa di tutto questo) non hanno più un incisivo potere sulla società, la loro voce viene tuttalpiù ascoltata da pochi addetti ai lavori; non esistono più editori-protagonisti come furono ai loro tempi Valentino Bompiani, Livio Garzanti, Giulio Einaudi, Giangiacomo Feltrinelli, Arnlondo Mondadori, Elvira Sellerio, ma esistono soltanto editori-imprenditori. Se ci pensiamo bene non sono affermazioni  nuove, visto che più di quarant'anni fa le sosteneva Pier Paolo Pasolini. Ma così è, e non c'è via d'uscita, ad ascoltare i due critici. 
Ma davvero le cose sono messe tanto male?
Io, che non sono una persona assolutamente ottimista, si badi, credo proprio di no.
Come al solito credo che la critica del nostro paese tenda a vivere in un arroccamento antiproduttivo, in base al quale esiste un canone sacro di cultura (che ovviamente appartiene al passato) che non si ripeterà mai più. Esiste solo un'interpretazione unilaterale del concetto di cultura, e tutto il resto appartiene alla massa, ergo non è cultura. Trovo davvero sorprendente che nel 2015 si debba ragionare ancora in termini di canone, quando già più di dieci anni fa un grande intellettuale come Edward Said tuonava così dalle pagine di Umanesimo e critica democratica:

Non appena si prende in considerazione la presenza storica delle discipline umanistiche si incontrano [...] due posizioni in continua lotta tra di loro. Una interpreta il passato come una storia fondamentalmente compiuta, l'altra vede la storia, e il passato stesso, come irrisolta, ancora in formazione, aperta alla presenza e alle sfide di ciò che emerge via via e risulta ancora inesplorato, degno di attenzione. Forse esiste come dicono alcuni un canone occidentale, fossilizzato e compiuto in se stesso, davanti al quale dovremmo inchinarci. Forse esiste un passato simile, forse dovremmo venerarlo. La gente sembra amare queste cose. Io no.

È in virtù di parole come queste che mi sembra che Cordelli e Mengaldo siano i tipici dinosauri di ruolo da università, inchiodati alla loro poltrona e a una concezione della critica e della letteratura quasi crociana. Solo così si spiega la totale non curanza di fenomeni letterari e culturali di grandissimo spessore. Qualche esempio? Nicola Lagioia, Giorgio Vasta, Christian Raimo, Roberto Saviano, Giorgio Fontana, Paolo di Paolo, il collettivo Wu Ming e potrei continuare, tornando anche indietro di qualche generazione. 
Non solo loro sono degli intellettuali sempre pronti a intervenire nel dibattito, ma sono degli scrittori che, insieme a molti altri, hanno contribuito alla trasformazione e alla definizione del romanzo italiano negli ultimi quindici anni. E il fatto che alcuni di loro abbiano avuto un certo successo di pubblico è davvero da considerare come una pecca? È vero, il mondo editoriale è costellato di scrittori-non-scrittori (e in qualche caso anche non lettori), ma si può per questo fare della cultura di massa un unico fascio da disprezzare?
E si può davvero disprezzare del tutto il ruolo di Internet, uno degli strumenti di parola più democratici che la nostra società possiede? Non molto tempo fa Gianluca Nicoletti, in risposta al ben noto pensiero di Umberto Eco, affermava che «non si produce pensiero nella cultura digitale se non si accetta di stare gomito a gomito con il lato imbecille della forza». E allora io affermo che non si produce letteratura nella nostra società se non si accetta di stare gomito a gomito con il lato imbecille del mercato culturale ed editoriale.
Quello che adesso gli intellettuali e gli scrittori dovrebbero fare dunque è coltivare dal basso, in rapporto con la massa, la cultura e la letteratura. Educare la società italiana al romanzo di qualità. Perché il romanzo oggi è vivo più che mai, è metamorfico più che mai; a ucciderlo sono le dichiarazioni di chi dall'alto del proprio scranno lo dichiara già morto, senza rendersi conto che se il mondo cambia la letteratura deve inseguirlo per comprenderlo e soltanto dopo, eventualmente, guidarlo.


Escher - Metamorphosis I


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6 commenti

  1. Cercherò di contenermi, perché avrei davvero molte cose (stizzite) da dire su questo argomento. Inizio col dichiararmi totalmente d'accordo con la tua posizione e a ribadire la mia eterna lotta contro qualsiasi generazione e posizione dettata dal solo conservatorismo accademico, che sopporto sempre meno. Pur essendo un'antichista e preferendo, nelle mie letture personali, i classici, non ho quell'idea ammuffita della cultura come di qualcosa esclusivamente relegato al passato.
    Il problema è che è molto difficile riconoscere l'arte nel momento stesso in cui nasce (qualche tempo fa ne parlavo altrove a proposito delle arti visive, ma per la letteratura è lo stesso), sia perché a volte occorre sottoporla alla prova del tempo, sia perché essa deve scendere a patti, come hai giustamente detto, con il mercato.
    Detto ciò, con tutto il rispetto per Mengaldo (che per altri versi stimo moltissimo), il mondo accademico è spesso chiuso per principio nei confronti del prodotto di massa, e dimentica che anche quella che per noi è oggi arte di enorme e indiscutibile valore un tempo è stata (non in tutti ma in molti casi) produzione di massa; poiché spesso faccio questo discorso a proposito della letteratura e mi sono più volte scontrata con docenti e colleghi che "o si leggono i classici o che schifo", va ricordato che Dickens o Dumas, tanto per citarne un paio, erano autri di romanzi d'appendice, prodotto che più massificato non si può. Ergo, il valore dell'opera non sta nel suo essere elitaria o di successo, ma si misura su molti altri elementi e sulla sua capacità di trasmettere oggi e in futuro qualcosa, sul suo spessore tecnico o sul progetto ad essa sotteso.
    Le generalizzazioni non fanno bene alla letteratura, se è vero che oggi si produce, data l'ampiezza del mercato e del pubblico (leggono in pochi, ma pur sempre più persone che nel passato, ricordiamolo), una gran massa di libri e che nei grandi numeri è difficile vedere qualità e, anzi, la sciatteria salta all'occhio, non è però scontato che la qualità sia assente del tutto.
    Ma sai, ai detentori "titolati" del sapere, in questo Paese, piace molto ergersi a giudici e stabilire cosa sia degno e cosa no di attenzione e da parte di chi. Ed è molto triste.

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    1. Vedo nel tuo commento la stessa stanca pesantezza che mi ha spinto a scrivere questo post, e credo proprio di sapere da dove deriva: dai nostri studi accademici, dove idee come quelle di Mengaldo vengono spacciate per verbo incarnatosi, dove i programmi di studio rimangono sempre gli stessi per decenni e decenni, mentre tutto il mondo nel campo degli studi di italianistica va dieci volte più veloce di noi.
      Il nostro mondo (e quindi anche la nostra letteratura) procede a una velocità sorprendente: limitarsi a "gli autori di oggi non saranno mai quelli di ieri" dimostra non solo scarsa lungimiranza (oltre che scarsa fiducia nelle più recenti generazioni, aggiungerei), ma non aggiunge nulla di concreto e interessante al dibattito.
      La mia tesi di laurea magistrale era incentrata proprio sull'idea dell'abbattimento del canone letterario, puoi immaginare quanto la questione sia per me sentita ;)

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    2. Sarei molto curiosa di leggerla, credo che condividerei molto della tua tesi, se già in queste poche righe hai sollevato una questione nei termini in cui la sento io stessa. Direi che "stanca pesantezza" rende bene l'idea, tuttavia non so se essere consolata o allarmata dalla constatazione che la chiusura che ho sperimentato nella mia università è diffusa anche altrove. Almeno sono contenta di vedere colleghi sul mio stesso piede di guerra! ;)

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    3. Si, da Nord a Sud poco cambia... Comunque vedrò se riesco a ridurla e adattarla in un paio di post la tesi, almeno evita di prendere soltanto polvere in libreria!

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  2. In questa discussione sto dalla parte di Giorgio Fontana e il suo "menefreghismo". Sono discorsi che si fanno in ogni epoca sul periodo precedente, si insegue un ideale di presunta qualità che non si sa bene dove risieda.
    Già con Claude Perrault si era mostrato come fossimo propensi a definire «bello» ciò a cui siamo avvezzi. C'è sempre un po' di diffidenza nei confronti del nuovo, com'è naturale che sia, ma i canoni si modificano col tempo.

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    1. Si è vero, da scrittore, da intellettuale o da semplice persona dotata di un minimo di intelligenza bisogna fregarsene. La cosa che scoccia è che poi tutto questo si rifletta nel campo degli studi umanistici dove tutto rimane praticamente immobile più o meno dai tempi di Carducci, e anche nel senso comune di chi magari non è minimamente interessato al dibattito.
      Giusto qualche mese fa in occasione di Io leggo perché mi sono confrontata con un signore che il libro non lo voleva nemmeno regalato, perché lui leggeva solo classici perché i contemporanei sono robetta. Sono riuscita a fargli portare a casa Sepulveda alla fine, chissà se è finito a reggere un tavolo.

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