Lo Scuru - Orazio Labbate.
Sono sempre stata convinta che il mercato editoriale del nostro paese soffra di una sorta di bipolarismo schizofrenico: da un lato troviamo prodotti concepiti esclusivamente per un mercato più ampio possibile, composti in una lingua e con un stile inconsistente in modo da facilitarne la traduzione; dall'altro lato troviamo prodotti che, se è esagerato definire d'avanguardia, sperimentano in direzione espressionistica e deformante con l'immaginario, lo stile, e soprattutto la lingua.
Questo è il caso del libro che mi appresto a recensire oggi: Lo Scuru di Orazio Labbate.
Lo Scuru
di Orazio Labbate
Tunué
Collana: Romanzi
Pagine: 128
Prezzo: 9,90€
Data di pubblicazione: novembre 2014
Il romanzo si apre immediatamente sul protagonista, Razziddu Buscemi, che, in attesa della morte nel portico della sua casa a Milton, nel West Virgina, ripercorre con il lettore la storia allucinata della propria infanzia e della propria crescita a Butera, un paese nel sud della Sicilia. Razziddu è violentemente immerso in una realtà deformata: figlio bastardo di una relazione non approvata dalla Chiesa, nipote di una sorta di stregona che lo tormenta per esorcizzare il male che è dentro di lui, orfano di padre, quello che il protagonista intraprende è un nostos, un metaforico viaggio di conoscenza della realtà dentro e fuori di sé. Ogni cosa è però colta sotto il segno della morte, del sangue, di una religiosità deformata, di un ancestrale magia che proviene dalla tradizione millenaria siciliana: ed è soprattutto grazie alla lingua che Labbate permette al lettore di immergersi in questa lunga visione.
Il linguaggio dello scrittore è difatti volutamente esasperato in un'ottica espressionistica, che usa il dialetto e la sintassi del siciliano per restituirci l'immagine di una precisa realtà. Il vernacolo di Labbate non è sempre di facilissima comprensione, soprattutto per i non siciliani, eppure questo spinge il lettore a sprofondare con più attenzione e con più intensità in quanto si sta leggendo. Per altro il dialetto viene sapientemente alternato con un uso dell'italiano quasi lirico e visionario (in particolar modo ad incipit ed explicit del testo stesso, quando è Razziddu ormai anziano che parla), che dimostra la grandissima maestria dello scrittore nel passare da un registro all'altro.
Molti a proposito di questo libro hanno già fatto emergere le numerose fonti di ispirazione dell'autore, dalla più sperimentale tradizione linguistico/stilistica siciliana di Gesualdo Bufalino e Stefano D'Arrigo al gotico americano di Faulkner e McCarthy, eppure io credo di poter aggiungere un altro modello, forse meno sentito, ma che scorre sotterraneo in tutte le pagine: quello di Vincenzo Rabito il contadino semi-analfabeta autore di Terra matta (Einaudi 15€), sorprendente esempio di una lingua tanto spontanea quanto proprio per questo vulcanica e viscerale, e di una biografia tanto tormentata quanto feconda di vita.
È chiaro, in ogni caso, che Labbate conosce e ha introiettato dentro di sé il meglio della letteratura siciliana, non solo per il suo sapiente gioco linguistico, ma anche per numerosi topoi tipici della sua tradizione, primo fra tutti l'immagine della luce carica del segno luttoso dell'oscurità che deriva soprattutto da Bufalino:
Ho i capelli bianchi e le mani vecchie, ma negli occhi sono ancora in grado di riconoscere la luce siciliana. La luce degli astri. La luce delle chiese. La luce del fuoco. Le luci mi fanno compagnia, in attesa del sonno eterno.
Trovo sorprendente in definitiva la staordinaria capacità autoriale dimostrata da un autore tanto giovane, che ha evidentemente alle sue spalle sterminate, profondissime letture. Un autore che, mentre l'intero paese si fa ammaliare dal siciliano in fondo spesso disadorno di un Camilleri, ha il coraggio di sperimentare con la lingua, di piegarla alla sua narrazione per fare emergere tutta la sua fertile ferinità. Se pensiamo che Lo Scuru è appena l'esordio letterario di Labbate, direi che la narrativa italiana ha da ben sperare nel futuro.
Poi pianse e chiancìva come a cantare per invocare fantàsimi. Sotto le sue unghie, Razziddu, s'addunàva per intanto del sangue di Nitto che si infilava, scorreva nell'iponichio e poi giù, sutta, ché raggiungesse le vene e ancora cchiù sutta dove il corpo inghiotte tutto e tu sei costretto a piangere. Possiedi dentro di te tutti chiddi, tutti i cristiani, tutti i genti, che hai odiato e insino il loro seme. Il tuo stesso sangue.
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