Lo diciamo e lo continueremo a ribadire fino all'eternità : certi libri non hanno una fisionomia tale da permettere loro di essere trasposti facilmente e dignitosamente sul grande e piccolo schermo.
La capacità che ha un'ottima prosa di serpeggiare tra le pieghe della mente umana, di spingersi e spingere tra alti e bassi, di correre, fermarsi, prendere respiro, e ripartire in un «folle volo», non sono certo da tutti. Per i più fortunati che possiedono una mente al di sopra, può volerci una vita intera, e un labor limae infinito. Mi chiedo allora cosa, cosa, cosa, passa nella mente di chi, quasi allo sbaraglio, prende in prestito una materia tanto preziosa.
La storia, da cui trae a piene mani un Ewan McGregor esordiente regista, è ovviamente quella dell'omonimo libro di Philip Roth, Pastorale americana, premio Pulitzer nel 1997, e se volete potete recuperarla qui unitamente ad una mia recente recensione.
Non è la prima volta che un romanzo di Roth viene trasposto sullo schermo: tra i più famosi basti pensare a La macchia umana con Anthony Hopkins e Nicole Kidman, o al recentissimo Indignation di James Schamus mai approdato nelle sale italiane. Gli esiti però non sono mai stati molto convincenti. Misurarsi con Pastorale americana, libro tra i più venduti, amati e acclamati di Roth, non si figurava dunque sin da subito come un'impresa facile, anche volendo momentaneamente accantonare il problema della sua intrinseca complessità , stilistica e tematica.
Non è la prima volta che un romanzo di Roth viene trasposto sullo schermo: tra i più famosi basti pensare a La macchia umana con Anthony Hopkins e Nicole Kidman, o al recentissimo Indignation di James Schamus mai approdato nelle sale italiane. Gli esiti però non sono mai stati molto convincenti. Misurarsi con Pastorale americana, libro tra i più venduti, amati e acclamati di Roth, non si figurava dunque sin da subito come un'impresa facile, anche volendo momentaneamente accantonare il problema della sua intrinseca complessità , stilistica e tematica.
Quello che mette in scena McGregor è una estrema banalizzazione dei tanti cuori pulsanti della narrazione, per tutta una serie di motivi.
Innanzitutto rimane, con mio estremo iniziale sollievo, la iniziale voce narrante di Nathan Zuckerman, che però viene ridotta quasi ad una macchietta di se stessa. Completamente appiattita la complessità psicologia del personaggio, che nel libro accompagna il lettore per un buon quarto della narrazione, esso si riduce a puro nodo di raccordo tra l'inizio e la fine della pellicola, affidandogli per altro in sede di doppiaggio italiano la voce di Mario Cordova (famoso doppiatore di Richard Gere, per intenderci) che stride prepotentemente con quella che è la tonalità grigia e a tratti disperata del Zuckerman di carta.
Ewan McGregor e Dakota Fanning. |
Lo Svedese di McGregor è così integerrimo e privo di ombre che, ad esempio, bypassa completamente uno dei nodi cruciali dei sensi di colpa del personaggio cartaceo: quello del famoso bacio dato sulla bocca della piccola Merry che si appresta a diventare una giovane adolescente. Il Seymour Levov di Roth darà quel bacio pieno di innocenza per poi farselo pesare addosso come un macigno per l'intera vita. Il Seymour Levov di McGregor lo rifiuterà con asprezza, relegandolo nelle categorie "nere" della sua mente dicotomica, che mai sbaglia.
Davanti ad American Pastoral si ha quasi l'impressione che il meraviglioso e tenerissimo Edward Bloom di Big Fish sia stato catapultato in una dimensione a lui estranea.
La famiglia Levov. Il ruolo della piccola Merry è interpretato da Ocean James. |
E Merry Levov? Il personaggio certamente più sfuggente e complesso dell'intera storia, tale soprattutto perché il suo punto di vista non è mai offerto in maniera diretta al lettore/spettatore, ma è sempre mediato dal punto di vista dello Svedese. Sicuramente però una caratteristica le è propria: l'essere sempre sopra le righe, sia da bambina, sia soprattutto da adolescente. E in questo senso l'interpretazione di Dakota Fanning sembra funzionare discretamente, senza però assurgere a chissà quali vette, che forse qualcun' altro sarebbe stato in grado di toccare con un tale personaggio tra le mani.
Infine, aggiungiamo anche qualche appunto su quello che è uno dei grandi e non troppo silenziosi protagonisti della vicenda: la Storia americana. Ecco, questa è forse una delle banalizzazioni che meno facilmente si perdonano. È evidente che la Storia rappresenta nel film soltanto uno sfondo in cui si muovono i personaggi, anche nelle scene in cui essa dovrebbe fare da padrone: penso al momento in cui la fabbrica di guanti di Newark viene presa di mira dalla guerriglia urbana scatenatasi nel New Jersey sul finire degli anni '60, trasformato nel film in un'ennesima conferma dell'estrema ingiustizia subita dallo Svedese. Non c'è traccia di quella caduta dell'American Dream che nel libro tanto viene ribadito: McGregor ci racconta il dramma di un uomo, non quello di un'intera nazione.
Non è l'american way of life ad essere colpito dunque, e lo dimostra anche il preciso finale scelto dal regista. Manca infatti quel precipizio finale in cui Roth decide di scagliare i propri personaggi (tutti, senza esclusione di colpi, compresi gli interessantissimi Lou e Jerry Levov nella pellicola quasi totalmente ignorati) e invece si opta per una sorta di riscatto consolatorio che in definitiva fa di American Pastoral un film sufficientemente piacevole per chi non è passato dalla penna dello scrittore ebreo del New Jersey, ed estremamente deludente per via della voluta ingenuità del regista per chi invece l'ha fatto.