Ho letto tanto in questi giorni a proposito della bufera esplosa sul caso di Salvatore Riina. E certamente, volenti o nolenti, lo avrete fatto anche voi. Cosa è necessario aggiungere? Forse ben poco. Forse soltanto la testimonianza di chi quotidianamente vive a contatto con la realtà che più di tutte è finita per essere destinataria dell'intervista e dei contenuti del libro.
Io vivo a Palermo da quando sono nata. Da qualche mese vivo nella tristemente nota via D'Amelio, scenario dell'uccisione di Paolo Borsellino nel 1992. Quasi tutti i giorni trovo sotto casa gruppi di studenti e scolaresche riuniti intorno all'albero della legalità. Saluto sempre con gioia iniziative (il 90% delle quali parte dal basso, dai cittadini) di riqualificazione e recupero di certe aree della mia città più "a rischio", come piace definirle eufemisticamente a qualcuno. Mi piace ogni anno partecipare anche a ciò di realmente autentico che è rimasto nella giornata della legalità del 23 maggio. Mi piace ascoltare le parole di Pino Maniaci. La mia famiglia è interamente composta da commercianti, piccoli commercianti, che in realtà non si sono mai scontrati con la realtà del racket o delle intimidazioni, ma che comunque fanno parte di una rete che sa cosa significa e come difendersi.
Certo, tutto il mondo è paese ormai. La linea della palma come diceva anni fa Sciascia si è spostata. La mafia, la criminalità organizzata in generale, è ormai fatto globale, che da tempo ha spostato i suoi interessi economici e politici al di là del Sud Italia (con buona pace di quei leghisti che ancora non se ne capacitano). La mafia ormai ha abbondantemente conquistato anche l'antimafia (e anche qui, sarebbe interessante riprendere le parole del sempre profetico Sciascia a proposito dei cosiddetti professionisti dell'antimafia).
Ma esistono precise realtà in cui l'ideologia e la cultura mafiosa sono endemiche e connaturate all'esistenza di un territorio. Sono quelle zone d'ombra di cui tutti, dallo Stato ai cittadini "per bene", cerchiamo di rimuovere l'esistenza: borgate, quartieri, famiglie, individui, il cui unico senso di appartenenza e di identità è dato da questa precisa mentalità, che alle volte travalica anche la reale appartenenza all'uno o all'altro clan. Dominio, sopraffazione, prepotenza, intolleranza, presunto idealismo cattolico: shakerate con saggezza tutti questi elementi, aggiungetevi la totale assenza di incisive e capaci istituzioni, un pizzico di disinteresse generale e otterrete la magia.
La magia che ad esempio fa sì che accadano episodi del genere: da uno scontro tra un gruppo di giovani immigrati, che vivono e studiano nella mia città, e un "branco" di palermitani assettati di desiderio di affermazione e dominio su un territorio proverbialmente difficile quale il quartiere di Ballarò, si arriva alla sparatoria, al colpo scagliato contro chi ha osato ribellarsi alle intimidazioni. Yusupha Susso, il giovane cambiano ferito alla testa, è rimasto in coma farmacologico per diversi giorni; il suo carnefice Emanuele Rubino è stato arrestato. Ma questo non prima di portare avanti la sua meravigliosa passerella sotto gli occhi di tutti, in un sabato pomeriggio all'interno di una delle arterie commerciali più importanti di Palermo, con la pistola in bella vista.
Quante motivazioni razziali stanno dietro a questo gesto? Ben poche. Con ogni probabilità se esse stavano alla base del principio della schermaglia, si sono poi dissolte del tutto nel momento decisivo: quando cioè un "estraneo" ha osato reagire di fronte al gruppo che ha nel quartiere di Ballarò e nelle sue zone limitrofe la propria pretesa di dominio, da imporre a tutti e ad ogni costo. È un pregiudicato Emanuele Rubino, e non è stato reso noto se appartenesse o meno a qualche clan, ma in fondo importa davvero? Le sue azioni rimangono comunque un evidente caso di ideologia e cultura mafiosa introiettata, definita e applicata.
Ora, provate a far germogliare su un terreno del genere un elemento come il libro, e ancora peggio, l'apparizione di televisiva di Salvatore Riina.
Provate a far germogliare su un terreno del genere l'esposizione mediatica di una faccia così apparentemente innocua come la sua (e diciamoci la verità, anche un po' da fesso) pronta a declamare il suo ruolo da bravo figliolo a cui non spetta giudicare le azioni del padre, perché il padre va sempre onorato e rispettato come dice il quarto comandamento (o il codice deontologico di una certa mafia della vecchia guardia? Non lo ricordo mai); una faccia pronta a declamare l'esistenza di un Totò Riina che molti non avrebbero mai immaginato, quella di un padre affettuoso e presente; una faccia che punta a stimolare quel senso di appartenenza tra pari (pari in quanto esseri umani) che un sentimento così comune come l'amore filiale può suscitare.
Provate a far germogliare su un terreno del genere l'esposizione mediatica di una faccia così apparentemente innocua come la sua (e diciamoci la verità, anche un po' da fesso) pronta a declamare il suo ruolo da bravo figliolo a cui non spetta giudicare le azioni del padre, perché il padre va sempre onorato e rispettato come dice il quarto comandamento (o il codice deontologico di una certa mafia della vecchia guardia? Non lo ricordo mai); una faccia pronta a declamare l'esistenza di un Totò Riina che molti non avrebbero mai immaginato, quella di un padre affettuoso e presente; una faccia che punta a stimolare quel senso di appartenenza tra pari (pari in quanto esseri umani) che un sentimento così comune come l'amore filiale può suscitare.
Provate a far germogliare tutto questo su quelle zone d'ombra di cui vi ho parlato prima, e ditemi un po' cosa vi aspettate che possa crescerne. Quelle zone d'ombra che già per altro vedono in Totò Riina o in chi come lui svolge egregiamente il suo ruolo, un padre simbolico, un capostipite.
A dare ulteriore legittimazione di tutto ciò (come se già certe realtà non si autolegittimassero abbondantemente da sole) è servito il siparietto dell'altra sera.
Non è servito certamente a far conoscere il "male", a dar cognizione di causa a spettatori e lettori, non ha aggiunto nulla al discorso della mafia e dell'antimafia. Quello che davvero mi è rimasto addosso da questa esperienza è stata la totale mancanza di necessità di tutta questa operazione. Un'operazione che in fondo farà mangiare l'editore, farà mangiare Bruno Vespa, farà passare a Salvatore Riina il messaggio che con tutta evidenza è andato consapevolmente lì a far passare.
Sì perché al di là della più schietta apologia di un padre, ho trovato molto saggia l'analisi dell'intervista che ne ha fatto ieri Roberto Saviano nella trasmissione TvTalk (e che già qualche giorno fa era stata suggerita da quel meraviglioso giornalista chiamato Marco Damilano a Gazebo): non si è trattato soltanto dell'apologia e della precisa identificazione umana di un padre, ma di ciò che il padre per anni ha rappresentato, un sistema mafioso cioè, che oggi è stato sostituito da un altro, meno rigido nella sua coesione interna forse, ma non per questo meno carico di quel potere canceroso che possiede, senza che per altro, almeno idealmente, la vecchia guardia demorda dai propri precisi intenti. So che stasera il discorso verrà approfondito su Rai 3 a Che tempo che fa, per chi se lo fosse perso.
Insomma: speculazione (quella dell'editore e quella di Vespa), omertà, apologia, pretesa di dominio (forse più ideologica che altro, quella di Salvatore Riina), di cosa stiamo parlando secondo voi?
P.S. So che molti obietteranno, come è stato già abbondantemente fatto, che parole del genere non fanno che alimentare il circolo vizioso della popolarità di cui per altro già gode il libro di Salvatore Riina. Avrete ragione, non avrete ragione, fatto sta che il libro ormai c'è, e quanto è accaduto e continua ad accadere motiva la necessità di parlarne.